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Io che volevo la luce, davvero,
mi sono alzata al primo pensiero,
dicendo che da oggi sarò chiara,
come un’alba sincera, come aria rara.
Ho guardato il mondo, e che splendore!
Gente che ride senza pudore,
che crede al bene, che danza al vento,
che non conosce il mio tormento.
Li ho amati, sì, come si ama il giorno,
quando scompare l’inverno attorno.
Ho provato anch’io: parole leggere,
fingendo che il cuore non fosse un dovere.
Ma presto il cielo s’è fatto opaco,
e in me è tornato il vecchio fiacco,
quell’inchiostro scuro, dolce e feroce,
che canta dentro con voce atroce.
Vorrei la loro fede innocente,
quel modo di vivere senza mente,
di credere al bene, di alzarsi interi,
di non sentire i giorni neri.
Io tento, giuro, ogni mattina:
mi lavo il buio con l’acqua fina,
mi trucco di sole, mi vesto di pace,
mi dico: “Guarda, ce la fai, ti piace.”
Eppure qualcosa sempre mi tira,
una voce bassa che mi respira:
Tu appartieni all’altra sponda,
dove la luce si fa profonda.
E allora scendo, docile, lenta,
come la foglia che il fiume tenta.
Ritrovo il mio buio, e m’incanta,
morde e consola, m’abbraccia e canta.
Vorrei spegnerlo, sì, lo so,
ma è parte mia, e dove andrò?
Non riesco a odiare ciò che m’ha cresciuta,
questa mia notte mai compiuta.
E resto qui, in mezzo al mare,
tra chi sa vivere e chi sa cercare,
con la luce negli occhi che mi abbandona
e il buio nel sangue che mi perdona.
E quando mi chiedo chi io sia,
la risposta è sempre la stessa, mia:
non ero fatta di sole, né di lontano…
ma del fuoco, umano.